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Il breve romanzo “Orbital” della britannica Samantha Harvey, vincitore nel 2024 del Booker Prize e pubblicato quest’anno nella pregevole traduzione italiana di Gioia Guerzoni, è un’importante acquisizione recente nella narrativa di ambiente spaziale, probabilmente destinata a restare un esempio piuttosto isolato di eccellenza letteraria nell’ambito dei testi narrativi ispirati dalla Space Science. Lontana dalle convenzioni di genere, particolarmente sorvegliata e levigata nelle scelte linguistiche e metaforiche, la novella rappresenta una lirica elegia dell’esperienza a bordo della stazione orbitale, venata da una sottile malinconia e tutta tesa a cercare l’essenza dell’umano nell’esatto punto di interfaccia tra atmosfera e spazio esterno. Le esperienze minimali e quotidiane dell’equipaggio internazionale di astronauti trasfigurano infatti al cospetto dell’immensa mole continuamente cangiante del pianeta madre e cementano una nuova consapevolezza organica ed ecologica che è per l’immaginario della nostra specie l’equivalente letterario dello shock iconografico provocato dalla foto Nasa “Blue Marble” all’inizio del programma Apollo.
Se la Harvey riesce abilmente a distillare su carta l’intuizione di Peter Solterdijk che l’osservazione eccentrica dallo spazio periterrestre costituisce “una forma pragmatica di trascendenza comune che orbita attorno a tutte le forme di vita terrestri e ai sistemi religiosi, abbracciandoli da una prospettiva sempre equidistante”, un altro romanzo inglese di taglio “Young Adult” e titolo analogo – “Satellite” di Nick Lake, pubblicato nel 2017 – rappresenta la conferma che la letteratura contemporanea è ormai uscita dall’eterna dialettica tra la Space Opera avventurosa e fracassona delle origini della fantascienza e la rivoluzione dell’Inner Space Ballardiano emersa sul finire degli anni Sessanta. L’opera dipinge infatti le vicende e la condizione di assoluta alienità di un quindicenne del vicino futuro nato ed allevato sulla Stazione Spaziale, nel suo commovente tentativo di ritornare al pianeta di origine sopportando la morsa di una intollerabile gravità che lo menoma, lo ostacola e lo spossa, oltre ad annichilire irreversibilmente i suoi due coetanei compagni di infanzia spaziale.
Dopo aver brevemente discusso gli interessanti parallelismi dei due romanzi citati, mostrerò come, intrappolato ormai da decenni in uno spazio intermedio sulla soglia del Pianeta Azzurro, l’uomo affina i suoi sensi e la sua capacità di affabulare riguardo a questo interminabile stadio transitorio, andando oltre le brucianti intuizioni solipsistiche del poco noto “Cancroregina” di Tommaso Landolfi (1950) e maturando la dimensione politica e storica dell’esperienza orbitale cyberpunk già introdotta da William Gibson e Bruce Sterling con la pioneristica short story “Red Star, Winter Orbit” (1983), ma anche sottraendosi al superficiale virtuosismo visivo e all’eccessiva “action” cinematografica di “Gravity” di Alfonso Cuaròn (2013). Inaugurando, in poche parole, una adulta e credibile letteratura del liminale periterrestre.